N. visite

Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone.  John Steinbeck

UN MERAVIGLIOSO VIAGGIO ALLA "FINE DEL MONDO"

 

Ancora oggi mi chiedo il perché: perché con una crociera? Ho fatto un viaggio che è un sogno, ho  visitato luoghi di  cui sarà impossibile attenuare il ricordo, ho potuto vedere ed ammirare luoghi, paesaggi ed una natura così incontaminata, per quanto ancora ciò sia possibile, che altrimenti è solo immaginabile se si esclude la visione di documentari televisivi. Ma perché con una crociera??

Non nascondo che quando Alberto, il mio amico meccanico, anche lui appassionato di  viaggi,  quello che dopo ogni mio rientro mi rimette in sesto il camper, sentendo che di lì a pochi giorni sarei partito, questa volta in aereo, per la Patagonia, mi ha posto la domanda, la stessa che mi ero già fatto da solo: perché in crociera? Mi ha lasciato per un attimo perplesso: a lui ho cercato di dare la risposta più sbrigativa possibile ma ho poi avuto problemi nel rielaborarla per giustificare la scelta con me stesso.

E’ vero, qualche mese prima l’argomento era stato affrontato con Mariangela ed i nostri compagni di avventure Caterina e Mario. La nostra età oramai vicina ai sessanta, qualche acciacco ed il mio problema al nervo sciatico ci hanno fatto escludere zaino e valigie al seguito da spostare continuamente da un albergo all’altro e propendere per il viaggio avventura si,  ma di tutto riposo.

Analizzando il programma di Costa crociere per il sud-America, la Patagonia argentina ci era sembrata ben trattata e, considerata la positiva precedente esperienza dei Caraibi, così è andata.

A parte il piccolo inconveniente della chiusura dell’aeroporto di Peretola due giorni prima della nostra partenza che ci ha visto decollare per Parigi da Pisa anziché da Firenze, tutto è andato come previsto ed in più Mario ha potuto conoscere una sua connazionale Greca in transito da Pisa.

 

Sul cielo di Parigi abbiamo avuto lo  spettacolo della torre Eiffel illuminata e poi dopo una breve sosta ci siamo imbarcati per le tredici ore di viaggio verso Buenos Aires dove arriviamo stanchi, un po’ assonnati e molto sgualciti ma con l’entusiasmo di ragazzi di terza elementare alla loro prima gita scolastica fuori provincia: era iniziata l’avventura, la realizzazione delle nostre aspettative.

Avremmo fruito volentieri di quel vantaggio ai bagagli ed all’imbarco che la Costa pubblicizza e riserva ai vecchi clienti ma a noi, pur avendone acquisito il diritto con il precedente viaggio, forse per l’eccessivo ingolfamento delle strutture, data la piena estate del luogo, non ci è toccato. I trenta Km. dall’aeroporto alla città ci hanno mostrato ciò che oramai è la realtà visibile ai margini di tutte le grandi città: la miseria che convive con il benessere. La bidonville presente in altri luoghi, qui è fatta di arrangiate piccole e misere costruzioni in muratura che sorgono lungo il bordo dell’autostrada, chiaramente rappresentative del grave disagio di chi le abita. A lato la grande città costruita già con criteri moderni, i grattacieli, i grandi spazi a verde, strade larghe più di 100 metri e piazze enormi. Il tutto, o quasi, copiato dalle città europee. L’architetto che ha progettato il più noto teatro di Montevideo, la capitale dell’Uruguay, stato confinante con l’Argentina che ha lo sbocco a mare come Buenos Aires sul rio della Plata, è stato osannato per la bellezza e sobrietà della costruzione fino a quando il mondo non si è accorto che quel teatro era la copia esatta della Scala di Milano.

L’orario dell’imbarco non ci permette altro che un rapido passaggio nella Piazza De Majo per una foto alla Casa Rosada e poi via….per quella assurda coda che ci porta sulla Costa Romantica.

La nave ci accoglie con un buon pranzo di benvenuto, la cabina ci sarà consegnata dopo un paio d’ore ma per le valigie c’è ancora da aspettare. Arrivano comunque in tempo per una rapida ricerca del costume da bagno ed un salto ristoratore al 10° piano per un tuffo in piscina nel tentativo di toglierci di dosso, per qualche minuto, i 34 gradi di quell’estivo cinque febbraio 2006 argentino.

Dopo cena formalizziamo il disappunto alla nostra assegnazione al secondo turno di cena: non ci sembrava naturale andare a cena dopo le 22. Quello era un orario più adatto a brasiliani e argentini.

La partenza, la notte in bianco, meno quattro di fuso orario, fanno si che a mezzanotte ora locale le quattro del mattino in Italia, entriamo in cabina e, in navigazione per l’Uruguay, finalmente ci si riposa cullati dalle acque dell’oceano. Domani è un altro giorno e, finalmente ritrovata la forma  potremo visitare quel piccolo paese che a forza di compromessi per mantenere l’accesso al mare ha avuto bisogno anche del nostro Giuseppe Garibaldi per cercare di risolvere i suoi problemi interni.

 

Montevideo

 

Ci rendiamo conto fin dalle prime battute che la nostra guida ci fa un resoconto troppo partigiano della città. A suo avviso Montevideo è un’isola felice senza disoccupazione senza microcriminalità, senza droga ecc. Dalle sue parole trapela invece una realtà diversa da quanto lui vorrebbe far credere: esiste, a mio avviso,  una repressione più o meno latente su tutto a scapito delle libertà personali tant’è che se non vuoi partecipare alle votazioni per gli organi istituzionali, ti devi giustificare con un certificato medico o con un attestato di ricovero presso una casa di cura. Ma probabilmente per lui quello è il massimo della libertà non avendone conosciute altre. Per il resto la nostra guida, un uomo di circa 60 anni, è certamente in gamba nel suo lavoro e traspare benissimo che fa di tutto per conservarlo. In due o tre ore facciamo il giro della città visitando i luoghi maggiormente rappresentativi ma la Patagonia deve essere un’altra cosa….Chi ha deciso di fare questo viaggio deve essere un amante della natura, quella natura che andremo a cercare e certamente troveremo più a sud.

 

 

La penisola di Valdes

 

 

Un giorno e mezzo di navigazione per raggiungere la prossima tappa ci fa prendere maggiore confidenza con la zona piscine per tentare una rapida abbronzatura che, almeno per me, si risolve però con una sonora scottatura.

L’esperienza, purtroppo, non è mai troppa: le due escursioni da poter effettuare nella penisola di Valdes sono alternative l’una all’altra. Optiamo per Punta Tombo ed escludiamo Punta Delgada. Solo più tardi ci accorgeremo che forse sarebbe stato meglio il contrario non perché i pinguini di Punta Tombo non meritassero, anzi, ma solo perché… ma poi vedremo.

Le sette del mattino: partenza per una giornata veramente indimenticabile quella trascorsa per visitare la zona di nidificazione dei pinguini di Magellano. Durante  i 180 Km. fatti in pullman di cui solo 80 di strada asfaltata ed il resto di un’ottima carrareccia, abbiamo approfittato per visitare il museo preistorico di Trelew, posto al centro di questa sperduta ed interminabile steppa argentina, che meritava veramente una sosta. Non c’è alcun dubbio però che la palma della giornata vada alla colonia di pinguini di Magellano che nidifica a Punta Tombo. Ci si rende subito conto che le foto e le riprese un po’ arrangiate fatte alla vista dei primi esemplari diventano quasi inutili quando si raggiunge la residenza della colonia. Qui non c’è certo bisogno dello zoom o di teleobiettivi particolari per riprendere quegli esserini che, tutti insieme, vanno ognuno per la propria strada. Si, è proprio così, ad uno sguardo veloce i pinguini sembra stiano facendo, tutti insieme, la stessa cosa, mentre invece guardando bene ci si accorge che ognuno fa qualcosa di diverso dall’altro. Proprio come accade nel cortile di una grande scuola durante la ricreazione: qualcuno gioca a pallone qualche altro mangia la colazione, altri fanno capannello da una parte e dall’altra. Così i pinguini: qualcuno ripulisce l’ingresso del nido, qualche altro porta erba fresca per renderlo più accogliente e comodo, qualche altro decide di buttarsi in acqua per un bagno altri scelgono di uscire dall’acqua e tanti altri immobili, sul bagnasciuga guardano il mare, l’orizzonte…. quasi con tristezza…. tanto da farmi tornare in mente l’immagine della Sirenetta di Copenaghen.

I pinguini nel loro ambiente naturale: un quadro indimenticabile.

In quella steppa sconfinata incontriamo anche i Guanachi, il camelide tipico della Patagonia, dal muso simpatico, lo sguardo interessato ed i grandi occhi dalle lunghe ciglia.

Il viaggio è stato lungo e scomodo su quella strada sterrata, ma senza dubbio alcuno, ne valeva la pena.

Al rientro a bordo “serata di gala”. Le signore sfoggiano il loro abito più “da sera” e noi maschietti, tutti vestiti da pappagallini più o meno colorati, o da pinguini tanto per restare in tono,  riuniti per un brindisi in nostro onore, della nostra vacanza, del Comandante, dell’Equipaggio. E poi via, con quei giochi che in seconda elementare qualcuno ancora vorrebbe fare ma la maggioranza decide di no perché troppo idioti, che se li vedi fare a casa tua a tuo nipote con gli amici, li inviti a smettere per qualcosa di più intelligente.

La cosa positiva invece è che mentre noi ci occupiamo di tutte queste menate, mangiamo, dormiamo, perlomeno la nave viaggia ed al mattino…. sveglia per la nuova escursione.

 

 

Punta Arenas

 

Un grosso paesone di campagna. Mercatini di tutti i generi con molto artigianato locale ed in vendita addirittura bracciali di pelle di serpente o di lucertolone e per gli appassionati anche ossa di dinosauro (almeno credo). Noi ci siamo accontentati di un contenitore per Mato (quella strana bevanda che tutti bevono in Argentina). Su di una bancarella ho anche assaggiato un pizzico di alga pressata: una schifezza.

Da qui siamo partiti con un traghetto per l’isola Magdalena a circa un’ora di navigazione. I pullman hanno trovato posto sul traghetto per consentirci di stare seduti comodi durante la traversata. Anche qui una passeggera locale ha aperto un  mercatino di prodotti in lana merinos, poncho, copricapo, maglie, maglioni ecc. e mi sembra abbia fatto anche buoni affari.

In prossimità dell’isola la nave è stata circondata dai delfini, la razza più piccola esistente, poco più grandi di una foca e di colore bianco e nero a ricordare le Orche. Abbiamo potuto fotografarli e riprenderli mentre con il loro veloce guizzare ci precedevano.

L’isola non è grande. Dal punto più in alto, se ne individuano i confini a vista d’occhio. Abitata solo dal guardaparco, è dimora stabile di una grandissima colonia di pinguini che si lasciano guardare, fotografare e disturbare da noi, frotte di turisti.  L’impressione è che questo habitat sia migliore di Punta Tombo. I pinguini sembrano molto più attivi e maggiormente a loro agio in questo territorio costituito da grandi spazi saliscendi a verde e con coste a picco sul mare. E’ ovvio che questa è solo una mia impressione determinata da presupposti e concetti “umani”. Se i pinguini hanno scelto di viverci è perché vivono bene nell’uno e nell’altro posto, altrimenti, essendo liberi di andarsene ……

Qui voglio riprendere quanto dicevo dell’escursione a Punta Delgada, alla quale abbiamo rinunciato in quanto alternativa a Punta Tombo. Forse sarebbe stato meglio visitare Punta Delgada dove, l’abbiamo saputo dopo, si sarebbero potuti avvicinare i leoni marini che vi vivono in gran numero e rinunciare a Punta Tombo che ci ha mostrato i pinguini che poi comunque abbiamo ritrovato qui alla Magdalena.

La critica va all’organizzatrice delle escursioni (Carla) che non ha saputo ben chiarire i due programmi alternativi negandoci così la possibilità di poter scegliere in base ai nostri gusti. Per il resto sono state due escursioni eccezionali, le rifarei ambedue perché anche quelli sono luoghi che non si potranno mai dimenticare. Per i leoni marini avremmo avuto altre opportunità in seguito.

 

 

Canal Beagle

ghiacciaio Italia

 

 

In navigazione verso Ushuaia, la città più a sud del mondo, percorriamo il famoso stretto di Magellano, la via alternativa al difficile passaggio di Capo Horn (vi hanno trovato la morte circa 10.000 persone dai tempi di Magellano) per l’oceano Pacifico.

Intenzione del Capitano è quella di gettare l’ancora per pernottare nella Baia Garibaldi. Spettacolo meraviglioso che supera veramente ogni nostra aspettativa: si incominciano a vedere ghiacciai sulle montagne in lontananza che noi tutti iniziamo a riprendere con le nostre telefotocamere. Sapevamo che, purtroppo, avremmo rinunciato al ghiacciaio più bello del mondo, il famoso Perito Moreno, per ragioni logistiche escluso dal nostro viaggio, ma sapevamo anche che comunque il Canal Beagle ci avrebbe mostrato ghiacciai altrettanto maestosi e imponenti. Pensavamo che fossero quelli i ghiacciai sostitutivi, ma non era così. La sorpresa si è fatta avanti pian piano quando, in lenta navigazione, abbiamo iniziato ad affiancare i veri ghiacciai che quasi sfioravamo con la nostra nave. Ognuno era più grande del precedente e da ogni successivo ci aspettavamo più sorprendente maestosità. Quella lenta navigazione e questa ammirazione con l’attesa della sorpresa successiva dava a tutta la gente sul ponte, ben coperta per il vento ed il freddo pungente, la sensazione di assistere ad uno spettacolo irreale e comunque irripetibile. Dall’altoparlante venivano annunciati i nomi dei ghiacciai, tutti nomi di nazioni europee, e quando finalmente è stato annunciato l’avvicinarsi di quello più bello, il ghiacciaio Italia, la sorpresa ha ammutolito i presenti ed anche l’altoparlante. Un’immensa distesa di ghiaccio eterno dove sono presenti tutte le sfumature del blù che dalla montagna sovrastante scende fino al livello dell’acqua formando caverne al suo interno.

Il Cappellano della nave, che evidentemente aveva scelto l’orario sbagliato per la messa domenicale alla quale anche Mariangela stava partecipando, si è ritrovato con i fedeli che ad ogni annuncio  di un nuovo ghiacciaio si guardavano cercando il modo di andarsene non visti, ma nessuno ha resistito all’annuncio del GHIACCIAIO ITALIA e la messa è, così.... miseramente finita.

La prevista uscita a turno con le lance per un’escursione sul canale dove si sarebbero potuti vedere altri leoni marini nel loro ambiente è stata prontamente annullata all’alzarsi di un vento improvviso e pericoloso che ha causato anche un incidente, sia pure di lieve entità, al rientro di una lancia che vento e onde hanno sbattuto contro la parete della nave.

 

 

Ushuaia e la guerra dell’agnello

 

 

Mario, il mio amico e compagno di tante belle giornate di caccia e di svago compresa la precedente crociera nei caraibi, è indubbiamente un buon mangiatore. Un po’ troppo schizzinoso, a mio parere, ma gran mangiatore. Gli si addice bene il detto che “quando mangia non guarda in faccia nessuno”. In effetti lui non vede proprio nessuno ma solo perché, quando mangia, lo fa così accanitamente che non riesce a sollevare lo sguardo dal piatto. Se poi si tratta di mangiare carne di agnello ben fatta, bè, allora la cosa diventa quasi indescrivibile. Ma andiamo per gradi.

La navigazione sul canale dei  ghiacciai ci porta in vista  dello scalo più a sud del nostro viaggio: Ushuaia.

La nostra nave, la Costa Romantica, è stata ferma nel porto nei giorni 13 e 14 febbraio (2006). Gli appassionati di altre navigazioni, quelle più comode e meno costose su internet, possono vederla  sulla webcam di Ushuaia ottimamente curata dal fotografo  Martin Gunter nelle foto di archivio di quei giorni (http://www.tierradelfuego.org.ar/v4/_esp/index.php?seccion=12&periodo=200602&pg=17).

Il giorno 13 visitiamo il parco nazionale e, nonostante avessimo letto e sentito che era preferibile visitarlo a piedi camminando in mezzo a quel monumento naturale, decidiamo di approfittare della visita organizzata e saliamo sul trenino “della fine del mondo”. Un percorso di circa cinque chilometri di rotaie che attraversano il parco così come circa un secolo addietro lo attraversava il trenino dei detenuti che venivano portati in quella zona per fare rifornimento del legname necessario alla sopravvivenza loro e della comunità. Ancora oggi sono visibili gli spezzoni di alberi tagliati sistematicamente giorno dopo giorno dai detenuti che ottenevano quel “premio”con la loro buona condotta. Si trattava di un lavoro molto faticoso ma era comunque preferito alla cella.

Quel verde incontaminato, i ruscelli che al loro interno formano isole di Natura,  le grosse oche selvatiche che prediligono quei luoghi, danno al visitatore la consapevolezza e la misura di come dovrebbe essere protetta la natura anche dalle nostre parti.

Ma torniamo all’agnello patagonico arrosto, il corsero asado.  Viene cucinato spaccato, aperto e disteso “a capannina” su di un fuoco che arde all’interno del ristorante e visibile dall’esterno quasi ad invitarti ad entrare, cosa che Caterina, Mario, Mariangela ed il sottoscritto abbiamo fatto con piacere e senza farci pregare.

Il piatto di agnello arrosto ci è piombato sul tavolo mentre ancora stavamo discutendo con l’antipasto.  Mario  si è reso subito disponibile e con un movimento rapido, preciso e chirurgico, con forchetta e coltello ha circonciso il pezzo di arrosto accaparrandosi la parte più abbrustolita e saporita e lasciandoci la parte interna. Il tutto facendo finta di nulla e fregandosene di cosa potevamo pensare convinto forse di non essere stato notato. Non si era accorto, Mario, che l’arrosto era “a volontà”. Era sufficiente avvicinarsi al fuoco con un piatto in mano che esso veniva riempito di caldo e fragrante “corsero asado”. Si, la caratteristica dei ristoranti di Ushuaia è proprio quella: chi vuole abbuffarsi di agnello arrosto non ha problemi e senza aumento di prezzo può mangiare tutto l’arrosto che vuole. E questo è proprio quello che accadde tanto da far ricordare a Mario quella serata come il più bel momento di tutta la crociera ed a noi come “la guerra dell’agnello”. Naturalmente questo è uno scherzo, ma un pò alla Pulcinella, per guardare la faccia di Mario quando leggerà questo passaggio e poter riallacciarci ancora per un attimo alla serie di risate di quella sera.

La città è disordinata ma simpatica. Anche qui si tratta di un paesone con una via centrale affollata di negozi e di souvenir, tagliata da vie traverse che da una parte portano al mare e dall’altra sviluppano il paese verso la montagna. Sul lungomare fa bella mostra di sé l’opera di uno scultore Argentino che ha inteso rappresentare la mancata conquista delle isole Falkland, che l’Argentina da sempre reclama, proponendo un “vuoto” rappresentato dall’area in negativo delle isole ad indicare, contestando, che quel territorio dovrebbe esserci ma non c’è.

 

La "terra mancante" : Le Falkland. Nonostante l'ultimo tentativo mancato, gli argentini rivendicano ancora quelle terre.
La "terra mancante" : Le Falkland. Nonostante l'ultimo tentativo mancato, gli argentini rivendicano ancora quelle terre.

La castorera ed i leoni marini

 

Forse è la giornata più attesa. Con un viaggio in pullman di circa un’ora raggiungiamo il centro del parco nazionale da dove sarà necessario proseguire a piedi all’interno di una natura che con i suoi profumi ci ricorda come dovevano vivere i suoi naturali abitanti di cui oggi non restano che poche sbiadite foto. All’interno del parco, sulla carrareccia ruta n. 3, che lì termina sulla sponda della laguna, abbiamo modo di ammirare “la castorera” e cioè il luogo maggiormente abitato da castori, importati dai primi conquistadores, che con le loro dighe sembrano mettere in pericolo grosse aree di bosco.

Le dighe costruite dai castori per farne le proprie tane, allagando il terreno circostante producono marciume alle radici degli alberi che inevitabilmente seccano.

La Ruta n. 3, l’unica strada della Patagonia. 3000 chilometri da Buenos Aires finisce qui ed a ricordarcelo, un cartellone.

Sulla sponda ci attende il catamarano per la visita ad  alcuni isolotti abitati dai leoni marini. Peccato, il cielo si sta annuvolando, si fa sentire un vento prima dispettoso poi gelido. I posti a sedere all’aperto, così ambiti poco prima, si liberano e solo pochi coraggiosi resistono all’esterno con le loro cineprese fino a quando comincia anche a piovere ed allora anche loro desistono. Quasi come un contentino, dopo una mezz’ora di navigazione esce un timido sole che invoglia di nuovo ad uscire per tentare qualche foto  agli abitanti di quegli scogli che cominciano ad intravedersi in lontananza. Veramente indimenticabile. Sono certo che chiunque di noi avrà già visto quello spettacolo magari su qualche ottimo documentario naturalistico ma ritrovarsi lì a pochi metri da quegli animali meravigliosi che, abituati a queste escursioni, ci guardano indifferenti e, quasi senza scomporsi, continuano i loro giochi, offrono uno spettacolo veramente unico e se dico indimenticabile non credo di esagerare.

 

 

 

Il lago Escondido

Era l’ultima escursione di Ushuaia, la stavamo per perdere per averla prenotata troppo tardi. E’ stata la nostra fortuna. Con il denaro che avremmo speso per una sola persona abbiamo ingaggiato un’agenzia che ci ha portato in quattro a visitare il lago nascosto. Con la simpatica Titti e la sua compagna abbiamo percorso la strada che attraversa le montagne che circondano la città. Abbiamo visitato un allevamento di cani husky e poi giù, verso il lago escondido. E’ veramente nascosto quel lago, infatti non l’abbiamo visto fino a quando la Titti non ci ha fatto scendere dal pulmino invitandoci a fare quei quattro passi fino al lago: lei ci avrebbe aspettato all’arrivo.

Quei quattro passi erano circa cinque chilometri che abbiamo percorso però molto piacevolmente perché ad ogni curva in mezzo al verde ci si presentava una vista del lago diversa da quella precedente. Nascosto tra le montagne, si raggiunge volentieri a piedi poiché proprio solo così c’è modo di riprendere quegli scorci di natura ognuno dei quali somiglia ad un’opera d’arte. All’arrivo un buon bicchiere di birra ed il ritorno in città e alla nave con in mente già la prossima ed ultima escursione alle isole Falkland.

 

Le isole Falkland - Port Stanley

 

L’abbiamo  saputo solo dopo, ma le Falkland sono un approdo quasi proibito per grandi navi, infatti non avendo un porto capiente, le grandi navi da crociera sono costrette a gettare l’ancora in rada e raggiungere il porticciolo con le lance di salvataggio. Ma tutto questo è raramente possibile dato il particolare clima del luogo, infatti, quasi sempre, tutta quella zona é spazzata da un forte vento che non permette l’uscita in sicurezza delle lance. Erano cinque anni che la  Costa non riusciva a sbarcare i passeggeri a Port Stanley. Noi siamo stati molto fortunati ad essere incappati in una giornata particolarmente favorevole che oltre a consentirci di sbarcare sull’isola ci ha permesso di visitarla tranquillamente a piedi, perché solo così si riesce ad assaporare la vita del luogo, ed addirittura di salire su un pulmino e raggiungere un sito, anche qui, popolato da pinguini. A differenza di Punta Tombo e la Magdalena, i pinguini sono sembrati più protetti. Non era possibile introdursi nel loro territorio. Ai visitatori è riservato un camminamento che permette di guardare ma senza disturbare.

Gli abitanti, meno di tremila persone, vivono molto tranquillamente. Oltre a qualche negozio di souvenir, ad un’autobotte che riforniva di carburante gli impianti di riscaldamento, un fabbro impegnato a saldare qualcosa, non ho notato altre attività lavorative a parte i capannoni e gli impianti per lo stoccaggio e la lavorazione del pescato. C’è stato però un certo numero di “casalinghe” che, improvvisatesi tassiste, uscivano dai loro garage con la 4x4 per far fronte alla forte richiesta di escursioni determinata da quella massa di persone che, scesa dalla nave, rappresentava più  della metà della popolazione del posto ed invadeva strade e piazze.

Ho letto successivamente su Wikipedia (www.wikipedia.org) che le principali attività sull’isola sarebbero rappresentate dalla pesca e dall’agricoltura. Ho impostato la sostituzione della parola agricoltura con allevamento delle pecore poiché a quelle latitudini non c’è agricoltura significativa, non mi risulta infatti alcuna attività di quel tipo dato il particolare clima dell'isola. L'unica attività pseudo agricola che ho avuto modo di vedere è stata la coltivazione di ortaggi e  pomodori che stentavano a maturare in una piccola serra familiare di circa due metri quadrati. E' invece molto sviluppato l'allevamento ovino, come ben testimonia anche il logo sulla bandiera.

 

Qualche foto

Immagini dei primi 600 Italiani che hanno raggiunto Ushuaia per costruirla

Qualche cenno storico

UNA LENTE DI INGRANDIMENTO CON LA QUALE SCORRERE LA CARTA DI TUTTO IL LATINOAMERICA. BISOGNA RAGGIUNGERE LA TERRA DEL FUOCO, ULTIMA ISOLA, "FINE DEL MONDO".(da Qui Touring dicembre 2011) 

 
Bisogna arrivare fino al grado 54'48'57 di latitudine sud su una vecchia e perfetta mappa del National Geographic. Ottobre 1950, i caratteri a stampa sono quasi invisibili, si nascondono fra isole e ghiacciai, ma, a fianco di Ushuaia, ultima citta dell'Argentina, vi e scritto con chiarezza: Empresa Borsari. La controversa avventura di oltre un migliaio di italiani, in maggioranza emiliani e friulani, non era sfuggita ai cartografi della più prestigiosa rivista geografica del mondo. Una storia dimenticata che deve essere raccontata.

Negli anni di un dopo guerra disperato e orgoglioso, un piccolo imprenditore bolognese (possedeva una falegnameria, aveva esperienza di edilizia) si arrischiò in un'impresa che appariva straordinaria: costruire case e infrastrutture di una nuova città in Terra del Fuoco, una delle regioni più inospitali del pianeta, grande isola allora quasi disabitata all'altro capo del mondo. Carlo Borsari, uomo massiccio e imponente (le fotografie dell'epoca lo ritraggono con addosso un pesante impermeabile e un basco in testa), riuscì a portarvi 1.139 fra uomini e donne. 

Operai con una missione impossibile. Fu I'ultima, grande storia di emigrazione organizzata. Sorprende il silenzio che ha avvolto, per decenni, questa impresa. Soltanto in anni recenti, alcuni storici dell'emigrazione italiana vi hanno riservato attenzione. Solo sette anni fa, un documentario della Rai ha raccontato la storia degli uomini e delle donne che, in una mattina dell'ottobre 1948, gelida primavera antartica, sbarcarono a Ushuaia.

Censimento ufficiale del 1947: a Ushuaia vi erano poco più di duemila abitanti. Ricordano gli emigrati italiani: "Non erano più di mille. E cinquecento erano ex carcerati". Gia, Ushuaia, "la baia che guarda a ponente" nella lingua degli indio Yamana,

non era una vera città. Era ancora un presidio navale, erede dell'occupazione militate ottocentesca dell'Argentina (la sflda confinaria con il Cile si sarebbe placata solo quaranta anni fa con la mediazione di papa Wojtyla). Un folle predicatore anglicano, Waite Hockin Stirling, vi era andato a vivere nel 1869. Nel 1884, un commodoro argentino, Augusto Lasserre, aveva ordinato la costruzione di un insediamento militare. Nel 1930, gli indigeni (gli Yamana, gli Alacaluf, i Selknam. . ..) erano già quasi tutti estinti; uccisi dai killer degli allevatori di pecore, decimati dalle malattie dei bianchi. Dal 1902 al 1947 qui vi era stato solo un carcere infame.

Nel dopoguerra, il leggendario presidente Juan Domingo Peron voleva cambiare il destino dell'Argentina.
Progettava uno sviluppo industriale. Voleva popolare terre disabitate. Aveva bisogno di nuovi abitanti, di migranti, di operai, di braccia da lavoro.

La Terra del Fuoco era la frontiera, il Far West del Paese. Doveva essere colonizzata. Doveva scrollarsi di dosso la fama di luogo infernale. Fu Peron a decidere la chiusura del carcere di Ushuaia; ciò avvenne appena un anno prima dell'arrivo degli italiani di Carlo Borsari. Furono i suoi ministri a firmare accordi migratori con l'ltalia.

"Mio padre venne a sapere da un amico scultore che l'Argentina cercava un'impresa capace di costruire una città nella Terra del Fuoco", ricorda oggi Franco Borsari, 68 anni, piccolo industriale bolognese, figlio di Carlo. Avevano fretta, gli argentini. Fra aprile e maggio del 1948, il governo di Peron approvò il contratto fra Borsari e la Marina Militare. All'imprenditore fu concesso un credito di cinquecentomila pesos. In meno di sei mesi, con annunci sui giomali e passaparola nelle parrocchie, Carlo Borsari reclutò oltre cinquecento operai. 

Scovò una nave carboniera in Olanda e la fece riadattare per il viaggio transoceanico. Era un'ltalia affamata quella che aveva deciso di migrare verso una terra sconosciuta. Un'ltalia che voleva dimenticare la guerra. Alcuni dovevano fuggire dal proprio passato. "Certamente, fra gli operai assunti da Borsari vi furono persone compromesse con il fascismo - spiega Lucia Capuzzi, 33 anni, giornalista e storica dell'emigrazione italiana gente Che voleva solo andarsene. C'erano personaggi ambigui. Molti altri, invece, non vedevano un futuro in Italia. Vi erano molti istriani. Alla fine partirono anche quindici tedeschi. Sicuramente Carlo Borsari si sentiva un pioniere. Inseguiva un sogno. Chiuse la sua falegnameria e si trasferi in Argentina". "Gli operai Che decisero di partire erano l'ltalia di allora. C'era di tutto", dice Franco Borsari. Vero è che Peron non voleva simpatizzanti dei partiti di sinistra. Voleva gente giovane, latini e cattolici, sani e possibilmente celibi.

II cantante Luciano Tajoli era Sulla banchina del porto di Genova quando, il 26 settembre del 1948, la nave salpò innalzando il gran pavese. Intonò le parole di E vanno, canzone degli emigranti. 

I giornali esaltarono l'impresa, annunciarono la fondazione di una Nuova Bononia, una "Nuova Bologna", all'altro capo del mondo.

Trentadue giorni di navigazione per 506 uomini e 113 donne. Quando la nave entrò nella baia di Ushuaia, gli italiani si guardarono attorno smarriti: la catena dei monti Martial era innevata, le acque del canale Beagle grigie e spumose. "Ri-

masi stupito dalla bellezza di questa terra", disse a Lucia Capuzzi, il carpentiere bolognese Antonio Teggi. "Ero attonito" - ricorda, invece, lo scalpellmo friulano Dante Buiatti. " Volevo tomare indietro. II giomo dopo eravamo in mezzo alla neve. Solo con il tempo mi sono abituato".

Per quasi due mesi, i migranti non ebbero altra casa che le stive del Chaco, una nave militate argentina, e due capannoni. Vita durissima. "Dormivamo in letti a castello di tre piani. Nove persone in una stanza tre metri per tre", raccontava sempre Odino Querciali, immigrato ferrarese. Ma, in cinquanta giorni, sorsero i primi fabbricati. Molte di quelle case esistono ancora: allora, in una urbanistica inesistente, erano il Villaggio Vecchio e il Villaggio Nuovo. Oggi sono i quartieri Sollier e Brown.

Gli operai di Borsari dovevano tirar su oltre cento case prefabbricate, costruire la centrale idroelettrica il mattatoio, una fornace, un edificio-frigorifero, una scuola. Dovevano deviare il corso del flume Olivia. Con lavoro volontario edificarono la chiesa. Carlo Borsari rimise in piedi la sua falegnameria ai confini del mondo.

Furono due anni di lavoro sfibrante. Gli inverni erano scuri e senza fine. Nelle estati australi si faticava senza pause o riposo. Quasi un anno più tardi, il 5 agosto 1949, un'altra nave, la Giovanna C., salpò verso la Terra del Fuoco. Fra i migranti, nuovi operai e familiari di chi gia viveva a Ushuaia, altri 520 italiani diretti alla Fine del Mondo. 

La carta del National Geographic fu generosa verso I'Empresa BorsarI. Nel 1950, l'avventura stava già per finire. I rapporti fra Carlo Borsari e la Marina argentina non furono
facili. Alla fine il contratto non fu rinnovato. Borsari rimase in
Argentina fino al 1960.
Molti operai decisero di tomare in Italia. Altri si dispersero per l'Argentina. Una cinquantina rimasero a Ushuaia. E, forse, ebbero ragione. Fecero la loro piccola fortuna. Divennero commercianti

e piccoli artigiani. Riuscirono, inconsapevolmente, a presagire, in anticipo, i tempi del turismo. Il logo della ciudad mas austral del mondo, contestato dai cileni di Punta Arenas, era destinato a fare la fortuna mercantile di Ushuaia.

Il  cartello stradale della ruta nacional n.3 avverte che  Buenos Aires è a 3.040 chilometri.

L'avenida S. Martin è la strada principale di Ushuaia. Vetrine di Benetton e negozi per turisti. Oggi Ushuaia ha oltre cinquantamila abitanti. Le case hanno tetti rossi e violacei. Una curiosa freccia segnaletica indica le distanze da numerose citta del globo:

Toronto 11.181km,

Lisbona 11.832 km,

Madrid 12.209 km,

Londra 13.400 km.

Roma è lontana 15.684 Kilometri.

Strana storia lega l'ltalia a questi luoghi ai confini del mondo, al gelo del canale Beagle. Le tagliatelle al ragù, traccia chiarissima lasciata dai migranti emiliani, sono il piatto più richiesto nei ristoranti di Ushuaia. D'altra parte anche Franco Borsari, oggi tornato a vivere sulle Colline bolognesi, ha nostalgie per la sua lontana gioventù passata laggiù.